Claudio, numero 177, lavora da casa per un call center. D'animo sensibile e amante della solitudine, conosce a memoria un gran numero di poesie, i cui versi - da un certo momento in poi - ha cominciato a recitare ai vari improbabili e ignari clienti del call center. Come bolle di sapone s'insinuano tra lui e gli sconosciuti all'altro capo del telefono senza che - apparentemente - nessuno se ne accorga, preso com'è dalla quotidianità. Fino a quando ...
“Buongiorno, sono Claudio, numero unosettesette, come posso aiutarla?”
“Claudio! Finalmente! Sono Anita, la signora dell’ Infinito di Leopardi!
Claudio si guardò intorno circospetto, come se la signora Anita potesse sbucare all’improvviso da sotto il tavolo. Già, ma chi l’aveva mai vista? Non avrebbe saputo riconoscerla.
“Claudio? Mi sente? Da quando, invece della solita offerta da non perdere, mi ha recitato i versi della mia poesia preferita, non ho pensato ad altro”
“Ehm … Signora Anita, lo sa che la telefonata può essere registrata?”
“Che importa! –rispose garrula – non stiamo facendo niente di male e poi, grazie ai suoi versi e alla sua voce, ho risolto tutti i miei problemi. Allora, presto, me ne reciti un’altra, la prego”.
Claudio lavorava per un call center da diversi anni e tutto sommato era soddisfatto di quell’impiego che poteva svolgere a casa, con il suo computer e senza dover rendere conto a nessuno; viveva solo e si era convinto che andava bene così. Intendiamoci, non aveva avuto molte chances con le donne: basso, quasi calvo e i pochi capelli rasati lasciavano intuire sfumature rossicce, che – lo aveva capito dopo l’ennesimo rifiuto da parte della ragazza di turno – non favorivano gli approcci. Nei suoi occhi azzurri, che da piccolo qualcuno, o forse solo sua madre, aveva definiti intelligenti, nessuna ambiva specchiarsi. Allora aveva tentato con un altro espediente, che poi espediente non era, il suo amore viscerale per la poesia. Niente da fare. Neppure un verso come “dolce e chiara è la notte e senza vento”, sussurrato all’orecchio della prescelta con la complicità della luna piena, era riuscito a far breccia in un cuore meno innocente di quanto avesse sperato. Così aveva cominciato a sussurrare versi ai clienti del call center e da un po’ di tempo gli uscivano di bocca quando meno se lo aspettava, tra una domanda e una risposta. Come bolle di sapone s’insinuavano fra lui e lo sconosciuto all’altro capo del telefono e scoppiavanoirriverenti e libere.
L’incredibile è che nessuno sembrava accorgersene, ascoltavano i suoi consigli sull’ultima imperdibile promozione e ignoravano i versi con cui aveva creduto invano di ingentilirli. Insomma, ogni volta era come se sulla poesia si abbattesse una sorta di irresponsabile censura e gli si facesse capire che “grazie, ma non abbiamo tempo per questi deragliamenti”. "Deragliamenti" era una parola poetica a lui particolarmente cara, come era solito precisare a chi gliene chiedeva conto.
Finché un giorno ecco la signora Anita, che lo lasciò recitare l’Infinito per intero e quando, qualche giorno dopo, riuscì a ricontattarlo, pretese che le recitasse un’altra poesia. Claudio commise l’errore di non fare il bis con Leopardi e le declamò, con sentimento e buona dizione, “L'amore/ non è paradiso terrestre,/a noi /l'amore / annunzia ronzando/che di nuovo/ è stato messo in marcia / il motore /raffreddato del cuore.
“ Come? Non ho capito! C’è un motore?” – Sebbene la signora Anita avesse dichiarato il suo amore per Leopardi, questo non aveva certificato una particolare perspicacia né Claudio si era mai chiesto se i suoi interlocutori avessero delle preferenze. Era invisibile, lo ascoltavano, non importa se più interessati ai prodotti in offerta e questo gli bastava. Poi in fondo – rifletté un attimo prima di rispondere - l’Anita aveva non solo ascoltato ma anche colto la parola chiave, sebbene non ne sembrasse consapevole, così pensò di farle cosa gradita fornendole una versione in prosa. E sbagliò.
“ Motore. Sì, è il motore raffreddato del cuore che l’amore ha rimesso in marcia. Eh sì, Majakovskij è un grande”
“Chi?”
“Majakovskij, poeta russo morto suicida” – rispose Claudio, modulando il nome del poeta con la calda e malinconica nostalgia di un innamorato respinto.
Nel frattempo un bollino rosso lampeggiante sul monitor segnalò altre chiamate in arrivo. Non vi fece caso, perché era ancora gentile e paziente, e se uno non capiva non pensava subito che fosse un cretino ignorante e irrecuperabile. Anzi, aveva obbedito all’ impellente desiderio di proiettare le conoscenze poetiche dell’Anita oltre i ricordi scolastici, per quanto meritevoli. Sbagliò, eccome se sbagliò.
“ Prima gli italiani! – la voce stridula della donna entrò nella cuffia peggio di una schioppettata – E poi io quelli che si ammazzano proprio non li capis-“
Zac! Interrotta, tagliata la comunicazione, e quella fu la prima volta da quando operava per il call center.
“Non s’è ammazzato, s’è tolto la vita”, urlò al gatto che irrequieto continuava a girare su se stesso alla paziente ricerca di un nido accogliente. Claudio era profondamente deluso, l’entusiasmo con cui l’Anita aveva accolto le sue inopinabili esternazioni in versi l’aveva illuso di poter fingersi e talvolta sentirsi poeta. E lo aveva quasi convinto che fuori dal call center esistessero persone in grado di capire che, per esempio, c’era una differenza tra ammazzarsi e togliersi la vita. In fondo anche lui, in maniera diversa da Majakovskij, aveva tolto il disturbo e un tal giorno, non avrebbe saputo più dire quando, era scomparso dal fuori del mondo, certo che nessuno si sarebbe interessato all’esistenza o meno di un laureato in geologia con 110 e lode e seicento euro al mese. Nessuno, tanto meno il bollino lampeggiante al quale rispose subito dopo la sfuriata. Tale era per lui chi telefonava, uno sconosciuto bollino rosso lampeggiante, inutile prendersela.
E invece, nonostante la delusione, successe di nuovo. Le parole sbobinate suo malgrado.
“Buon giorno, sono Claudio, numero unosettesette, come posso aiutarla? Ma prima di dirmi qualcosa guarda il genio in fiore del mio cuore!”
“Pronto? Chi parla?” – insistette il bollino rosso, che Claudio s’affrettò a spegnere in preda al panico senza sapere perché. Aveva intuito che gli stava succedendo qualcosa di nuovo, una frenesia mista a indignazione, ma era indignazione poi? O piuttosto leopardiano disinganno?
Si guardò intorno ansimante, le mani sudaticce e chiuse gli occhi sul disordine incandescente e sventurato di un monolocale senza finestra. Spalancò la bocca in cerca d’aria e rispose a un altro ostinato, asfissiante bollino rosso lampeggiante. Era ancora spinto da un’illogica speranza di voce amica e di ascolto empatico.
“Buon giorno, sono Claudio, numero unosettesette, come posso aiutarla?”
“Buongiorno. Vorrei un’informazione sul nuovo modello di pompa di calore XYZ e …”
Non riuscì a trattenersi. Non lo lasciò neppure finire e gli srotolò i versi come se fossero scritti su uno di quei fischietti di carnevale. Pensò che poteva di nuovo divertirsi e convincersi che il suo lavoro non gli pesasse. Pensò persino che quei versi fossero la migliore risposta a una richiesta di calore. Della pompa XYZ avrebbero parlato dopo, quietati dall’insolita pacatezza della voce di un operatore telefonico. La pacatezza di chi, come Claudio, non misurava il tempo in secondi persi e non temeva il silenzio dell’attesa. Ancora una volta si sbagliò.
Di cosa è fatto l’ arco che traccia senso/ tra due punti qualsiasi dell’esistenza? Di tempo? No./Il ritmo dell’astratto trascorrere/nell’esistenza/sei tu.”
“Perché le cose non funzionano mai come si deve in questo paese di m****? Ci dev’essere un’interferenza – commentò una voce maschile prepotente e antidemocratica. Proprio così, antidemocratica, pensò Claudio.
La voce continuò, rabbiosa: “ ‘sto operatore sarà un cretino albanese, rumeno, tunisino, ormai siamo in mano a loro. Le ripeto, voglio essere educato e le mando anche bacini e bacetti: mi dici dove c**** posso trovare l’XYZ? Ehi, unosettesette, ci sei?”
“Ci sono, signore, mi chiamo Claudio e quel cretino sono io – sbraitò delirante e rivolto al nulla al di là dello schermo – Sono io, Emily Dickinson, e quella non è un’interferenza, sono versi poetici, sono la vita, il vascello, il gabbiano, il vento- scoppiò a piangere, singhiozzò, tirò su col naso e concluse in un impercepibile sussurro - le stelle, i desideri”
Il bollino rosso si spense di colpo sulla scia di un “vaffa” esclamato a pieni polmoni all’indirizzo dell’operatore unosettesette. Claudio si tolse la cuffia e restò ad osservarla, muto. Se si fosse guardato allo specchio si sarebbe visto scomparire a poco a poco, svuotarsi. Un vuoto che respirava e si muoveva. La mano si sollevò estranea ad accarezzare il gatto, che si limitò a ronfare e a sollecitare nuove carezze. Di punto in bianco però drizzò le orecchie sospettoso e subito dopo squillò il campanello. In automatico Claudio indossò gli auricolari, ma il campanello risuonò nel monolocale con petulante insistenza. Il gatto balzò giù dal tavolo e sparì.
Bollini rossi, campanelli che non mollavano, le gambe lo fecero alzare dalla sedia e lo spostarono verso la porta d’ingresso. Si mise sull’attenti, rigido, come davanti a un plotone d’esecuzione e urlò:
“Buongiorno! Sono Claudio, numero unosettesette, come posso esserle utile?”
“Ciao Cla’! – gli rispose una voce al di là della porta soffocando a stento una risatina – le tue mele e il tonno! Ah … c’è anche un’altra raccomandata. Stammi bene”.
Una busta scivolò all’interno da sotto la porta e la voce si allontanò scortata dalle malignità e dalle risate di altre voci.
Claudio lentamente aprì l’uscio, allungò un braccio, afferrò la busta della spesa e istantaneamente richiuse, come se l’aria proveniente dal pianerottolo lo avesse contaminato. Inclinò la testa e il suo sguardo sfiorò appena la busta.
I pensieri gli si aggrovigliarono nella mente senza che riuscisse a tradurli in versi. Qualcosa stava succedendo, ma non avrebbe saputo dire cosa. Chiamò il gatto con un sibilo che avrebbe desiderato trasformare in fischio, se fosse stato capace di fischiare, e il gatto uscì dal suo rifugio. Insieme divorarono la scatoletta di tonno. Vuota, Claudio la spinse col piede e la osservò rotolare fino a un misero cumulo d’untuosa immondizia. Provò di nuovo a fischiare, arricciando le labbra più volte, senza risultato. Di nuovo fu sorpreso dalla sensazione di svuotamento, di incapacità ad agire. Il suo corpo pesante non gli obbediva e lui lo lasciava fare, immobile. Solo i suoi occhi si spostarono indifferenti sul bollino rosso che aveva cominciato a lampeggiare insistente e non rispose. Bisbigliò a se stesso “c’è una terra che tace/e non è terra tua./Sei un chiuso silenzio/ che non cede, sei labbra/e occhi bui./Sei la vigna”
“Sei, sono la vigna”, ripetè lieto per le parole ritrovate e del tutto incurante dell’instancabile bollino rosso, il richiamo che un tempo l’aveva attratto come il canto delle sirene. Un tempo, pochi minuti prima, o erano ore? Sempre più nel caos avvertì una disperata nostalgia di sé, di come era stato, del bambino che sapeva fischiare.
Afferrò un foglio di carta e scrisse il suo nome in verticale. S’interruppe a scrutare il gatto, le sistematiche e rituali leccate, sue e giù, su e giù, i baffi, le orecchie, il pelo del corpo, poi le zampe, le unghie, la coda. Non la finiva più. Riprese a scrivere.
Cosa sarà la figura sul
L etto, il mio letto
A nima
Umida e
Deragliata per
I ntime
Oossessioni
Soddisfatto, lesse quanto aveva scritto, lo sussurrò a se stesso e rispose al bollino rosso.
“Buongiorno, sono Claudio, Vacillare insieme a te in un Unico universale precipitoso Oriente e Tornare come sempre a casa, novello Odisseo. Piaciuto? L’ho scritto io”
Nessuna risposta dallo sconosciuto bollino, la chiamata era stata interrotta dopo “precipitoso Oriente”! Ma Claudio non si offese e rispose all’ennesimo ignaro bollino rosso lampeggiante:
“Ciao, sono Claudio e sono il poeta del call center. Urla nella notte la sentinella della foresta e -”.
Inattesa lo raggiunse una voce fredda, incolore, ordinata. La voce del mondo di fuori. Sfratto, licenziato, bollette, servizi sociali, malato. Claudio ascoltò diligente, ma le regole della realtà gli sfuggivano e lo confondevano. Finché si persuase che quella voce stava inanellando frasi senza senso che non prendevano molto sul serio il vicolo cieco del suo struggimento, del suo essere diverso. Quando la verità gli si rivelò tragicamente limpida, mormorò un educato "Mi scusi”, spense il computer e infilò un paio di scarpe da ginnastica.
“Abbiamo molta strada da fare”, disse sorridendo al gatto, che capì. Spalancò la porta, guardò a destra, guardò a sinistra, scese le scale, uscì in strada. Il gatto gli trotterellava vicino e presto scomparvero alla vista.