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Recensione di Riccardo Cocchi

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Ambientato nella Bassa Padana dell’estate del 1983, il film di Luca Guadagnino, regista siciliano di 46 anni, racconta il coming of age di Elio, diciassettenne ebreo italoamericano, il cui padre, professore di archeologia, ospita come ogni anno in una villa del cremasco uno studente impegnato nella stesura della sua tesi di dottorato: Oliver, atletico ventiquattrenne statunitense, brillante e spavaldo, sconvolge la partitura della vita di Elio, intercettandone il desiderio e catalizzando nell’urgenza dell’affacciarsi all’età adulta i ritmi dilatati e forsennati insieme di una adolescenza che non è un periodo di vita, ma uno stato mentale. Inizialmente infastidito dall’arrivo di questo seducente usurpatore, Elio se ne scoprirà sempre più attratto, in un coinvolgimento senza più remore, sempre più totalizzante.

Un’educazione sentimentale una e trina che, reiterando l’esplorazione sessuale di sé stessi tra fantasie, desideri e masturbazione, interroga Elio su sé e sull’altro, nei rapporti col maschile e col femminile. La scoperta archeologica consente finalmente l’emergere di una forma perfetta e mancante, che trova il suo compimento soltanto nel gesto di restituzione da parte dell’altro.

Noli me tangere, smettiamo di toccarci.

Il contatto iniziale sembra aver sempre bisogno di un mezzo, di un tramite, nella paura di rompere qualcosa di ancora perfetto, come un uovo à la coque, una pèsca, una statua ellenistica. La necessaria deflorazione al/del vivere.

Guadagnino, incerto nella sovrabbondante sceneggiatura di James Ivory, tenta il difficile cocktail che misceli nostalgia e contemporaneità, soccombendo al troppo, in un I segreti di Brokeback mountain all’italiana in cui, strizzando l’occhio a Bertolucci, balla da solo una pellicola in cui c’è troppo di patinata, sovrabbondante decadenza: dalle tante lingue del film, alla storia di amore e sesso che, ormai incamminatasi su binari precostituiti, non può che esaurirsi nel tempo della lunga, lunghissima, eterna breve estate dell’efebia di Elio – il bravo, bravissimo Timothée Chalamet.

Le grandiose aule delle Terme di Diocleziano ritornano ad essere cornice di una mostra fotografica. Sarà questa la volta delle foto che Florence Henri, formatasi al Bauhaus e “compagna” dei Dadaisti, scattò durante un viaggio in Italia tra il 1931 e il 1932. A catturare la sua attenzione fu soprattutto il Foro, le sculture e le architetture “classiche”. Dagli scatti realizzati l’artista trasse diversi fotomontaggi pubblicati negli anni successivi. Tra questi, le foto della campagna del 1935 con i “ritratti” e le diverse composizioni “astratte” che costituiscono ancora oggi il maggior corpo di lettura delle antichità romane, conferendo un carattere specifico alla citazione del classico nella sua fotografia. Particolari le stampe in cui figurano Minerve polarizzate con un effetto a bassorilievo o le pose dove figure femminili mediterranee come in cammei ellenici, che riecheggiano i nudi di Man Ray, si stagliano sulle rovine.

Data Inizio: 05 maggio 2015
Data Fine: 31 agosto 2015
Luogo: Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano
Orario: 9-19.45
Telefono: 06 67232680
Sito web: http://archeoroma.benculturali.it